Enrico Letta: «L’era delle -Exit è finita. L’Europa va allargata ma senza diritto di veto»
L’ex premier racconta, in un libro, il viaggio in 65 città del continente
approdato nel rapporto sul Mercato unico: «Dopo l’addio britannico,
di Italexit non si parla più, per gli svedesi Suexit ormai non è un’opzione»
Un libro figlio di un viaggio lungo duecentoquaranta giorni. Sessantacinque città europee, quattrocento incontri, per redigere un rapporto sul futuro del mercato unico, su richiesta dell’Unione Europea, come aveva già fatto Mario Monti nel 2010. E un libro, appunto, dal titolo Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa, edito da Il Mulino. Lo ha scritto Enrico Letta, 58 anni da poco compiuti, presidente dell’Istituto Jacques Delors, lo statista che più di altri ha avuto un ruolo nella sua formazione e che, con le sue idee, ha tracciato la strada per un percorso comune del continente. L’uomo che diceva che «non ci si può innamorare di un Mercato Unico», frase che allora a Letta sembrava ingenerosa di fronte a un progetto grandioso, ma della quale condivide la sostanza: il bisogno cioè, con passione, di andare oltre, e scoprire che l’Europa può e deve diventare molto più di un Mercato.
del libro
di Enrico Letta,
ex premier,
Molto più
di un mercato
(Il Mulino),
è il frutto
di un viaggio
lungo 240 giorni
Presidente, lei parla di una Ue assolutamente insostituibile. Ci sono però due approcci: l’Europa come un tram, sul quale salire o scendere a piacimento, o come un treno senza fermate.
«Penso che la somma tra Brexit, pandemia e guerra in Ucraina abbiano reso evidente come l’Europa sia assolutamente insostituibile. La Brexit è stata un fallimento, un’eccezione dispendiosa, autolesionista e sciagurata. Pochi anni fa era quasi una moda, anche da noi si parlava di Italexit. Ora non ci pensa più nessuno. Compresa la Svezia. Lì, nei miei incontri, mi hanno detto chiaro che la Suexit non è più un’opzione. E l’Europa unita non è solo conveniente, ma un progetto straordinario da perseguire con passione».
I nazionalismi si nutrono del diritto di veto, che ogni Paese può imporre. Lei propone di diluirlo in un veto collettivo, di almeno tre Stati. È un’idea che può passare?
«Gli incontri che ho avuto non sono stati solo ufficiali. Ho parlato con studenti, cittadini, parti sociali. C’è un grande interesse, che non è solo mercantile, come spesso capita a Bruxelles. L’Europa viene considerata una grande opportunità. L’occasione di non essere una colonia americana, o cinese. Non le metto sullo stesso piano, con gli Usa c’è una solida alleanza, ma anche lì un problema di concorrenza c’è, con tutta evidenza. E serve la coscienza di quanto vale il nostro continente. Faccio un esempio: all’Olimpiade di Parigi, Usa e Cina si sono contesi la vetta delle medaglie d’oro. Ma proviamo a contare le medaglie dell’Europa tutte insieme: non c’è gara. E poi non dobbiamo essere impietosi con noi stessi: in pochi anni abbiamo dovuto affrontare uno sconvolgimento rapidissimo. L’esplosione della Cina, un miliardo e mezzo di persone, quasi il triplo dell’Europa, sono entrate sulla scena. Ancora l’Olimpiade: nel 1988 Pechino aveva appena 5 medaglie d’oro, a Parigi sono state 40. E presto si imporrà l’India, che sarà una seconda Cina».
«IL CENTRO? LA CHIAVE PER BATTERE I POPULISMO SONO LE COALIZIONI. DALLA POLARIZZAZZIONE ECCESSIVA RISCHIAMO RISULTATI TOSSICI»
Torniamo però al diritto di veto.
«In passato ogni Paese si considerava il più forte. Oggi serve l’unione. Mi piacerebbe abolire del tutto il diritto di veto: servirebbe l’unanimità, e non è possibile. Ma introdurre il veto collettivo, di almeno tre Paesi, sarebbe un buon compromesso. Per capirci: niente più veti alla Orbán».
Aprire le porte dell’Europa a chi, come l’Ucraina, vede minata la sua indipendenza e sicurezza. Ma tante sono le preoccupazioni di una concorrenza incontrollata.
«Allargare è una necessità. Ma serve concretezza. Non è pensabile, per esempio, estendere il diritto di veto a ogni nuova nazione che entra. E poi serve un fondo di accompagnamento per l’allargamento: i 27 Paesi membri non possono vedere i finanziamenti europei diluiti e ridotti. Ma ripeto: l’allargamento è fondamentale. Pensiamo alla Turchia. Si è avvicinata, abbiamo gestito male la partita e si è rivoltata. Abbiamo pagato un prezzo alto e lo paghiamo anche adesso. Non facciamo lo stesso errore con Ucraina e Serbia».
C’è poi il timore di regole ingessate. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha detto che il patto Ue impone breve respiro, e che il Pnrr ricorda i piani quinquennali dell’Unione Sovietica.
«Sono d’accordo con Paolo Gentiloni, che ha visto nelle parole di Giorgetti anche un che di scherzoso. La complessità dell’Europa impone piani di lungo periodo. Ma la burocrazia è veramente troppa. Nel piano, per esempio, propongo la creazione di un ventottesimo Stato virtuale, con un proprio ordinamento commerciale. Le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, potrebbero scegliere se usare le leggi nazionali, o il nuovo regolamento, unico e valido in tutta Europa. Ho trovato il favore di Cna e Confartigianato. Gli Stati Uniti ne sarebbero felici, per poter investire. Ursula von der Leyen ha rilanciato la proposta nel suo discorso di insediamento. Ci vogliono incentivi fiscali, una nuova politica del risparmio che faccia gli interessi dei cittadini e faciliti gli investimenti».
«PENSO A 28° STATO VIRTUALE CON UN SUO ORDINAMENTO COMMERCIALE: LE IMPREESE POTRANNNO SCEGLIERE SE USARE QUESTO O LE LEGGI NAZIONALI»
Tanti vedono la transizione verde non come una occasione di sviluppo, ma come una trappola costosa e inutile, che aiuta i forti e schiaccia i deboli.
«La transizione verde è indispensabile, ma bisogna studiare come si finanzia, altrimenti diventa un boomerang. Servono risorse private e pubbliche, non solo pubbliche. Quello che è stato fatto dopo il Covid non può diventare una regola, negli incontri me lo hanno detto tutti. Ma sia chiaro: la spesa non può ricadere su lavoratori e famiglie, soprattutto per quanto riguarda le case e le auto. La presidente della Commissione Europea sa bene che il tema di chi paga è centrale, e non possono essere i più fragili».
Difesa comune: l’Europa balbetta o si può, concretamente, cambiare?
«Deve diventare strutturale. Ora ogni Paese ha il suo sistema di difesa. Duplicazioni, costi elevati. Abbiamo investito 140 miliardi per aiutare l’Ucraina. L’ottanta per cento di questa enorme cifra, pagata dai contribuenti europei, è finita nelle produzioni degli Stati Uniti, della Turchia e della Corea del Sud. Lì, e non da noi, si sono moltiplicati i posti di lavoro. Un paradosso direttamente causato dalla frammentazione dell’Europa della Difesa in 27 sistemi, che sono troppo piccoli. Intendiamoci: quella dell’Europa è un’idea di pace. Ma sappiamo che alle nostre frontiere le guerre non sono mai finite. Dobbiamo superare la follia della frammentazione. Ancora: ogni anno ben 300 miliardi, dei trilioni di risparmio di noi europei, se ne vanno a Wall Street, a causa della nostra frammentazione in 27 mercati finanziari. Se fossimo più uniti rimarrebbero qui e finanzierebbero l’economia europea. Il Nasdaq, da solo, vale due volte le Borse Ue. Energia, telecomunicazioni, mercati finanziari, sono divisi per 27 e vanno integrati. E poi serve coraggio nell’innovazione e nella ricerca. L’Europa si è fondata su quattro libertà: beni, servizi, capitali, persone. Se ci pensiamo è un’idea datata, novecentesca, analogica. Per questo nel piano propongo una quinta libertà: quella dell’innovazione, della competenza e della ricerca. Un grande tema su tutti: l’intelligenza artificiale. Non possiamo solo star qui a cercare di regolarla. Bisogna investire nella ricerca sull’intelligenza artificiale soldi pubblici e privati».
C’è poi la questione dei migranti. L’Europa continua ad andare in ordine sparso.
«Sono d’accordo con il governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, quando dice che serve più Europa e servono più migranti regolari per lo sviluppo. È ormai coscienza comune che la vicenda dei migranti sia una grande questione epocale, che riguarderà tutti per i prossimi decenni. L’integrazione è indispensabile per il nostro futuro. Anche la ripresa del confronto sullo ius scholae è un ottimo segnale».
Che ruolo ha l’Italia nella partita europea? È un freno o uno stimolo?
«Nell’Europa dei 27 c’è una grande disponibilità verso l’Italia. Il fatto che sia stato affidato a Mario Draghi il rapporto sulla competitività e a me quello sul mercato unico non è che uno dei segnali. C’è un grande spazio, sta all’Italia giocare bene le sue carte».
Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono a un passo. Che cosa ha da sperare e temere l’Europa?
«Gli Stati Uniti sono di fronte a una scelta che può avere risvolti drammatici. Donald Trump non è lo stesso di otto anni fa, è molto peggio. Sono sollevato per il gesto generoso di Joe Biden che ha permesso a Kamala Harris di lottare per la presidenza. Serve ancora di più un’Europa unita, non solo per competere, ma anche per proteggersi».
Torna il dibattito sulla necessità di un Centro politico, 7 se ne è occupato di recente.
«La chiave per battere il populismo sono le coalizioni. Ursula von der Leyen lo sta facendo bene in Europa. In Germania, così come in Francia, dove non era mai successo, le coalizioni diventano sempre più necessarie. Una polarizzazione eccessiva rischia di produrre risultati tossici».