Enrico Letta: "L'Europa resta una costruzione storta senza il pilastro sociale"

Enrico Letta, lei ora, da presidente dell’Istituto Jacques Delors, diventa un po’ il custode di una memoria. Che cosa rappresenta Jacques Delors per la sua generazione? L’Europa del sogno. E di un sogno che è riuscito ed è diventato realtà. La mia generazione, nata negli anni Sessanta, e la successiva sono quelle che hanno sperato di vivere in questa Europa senza frontiere. E di vivere tutte le opportunità di pace e di sviluppo che rappresentava. Lei da bambino andò in Francia coi suoi genitori, quando c’erano ancora le frontiere. E poi, diciamo così, l’ha frequentata molto da adulto. E la differenza è proprio questa: tra sentirsi emigrante ed essere cittadino di una casa comune. Differenza che la generazione Erasmus non ha vissuto. Sa come Delors riuscì a far passare l’Erasmus? No, come? Me lo raccontò un pomeriggio di diversi anni fa. Lui era un abilissimo negoziatore, veniva dal sindacato, la Cfdt francese. E la sua abilità fu, nell’ambito dei negoziati con Margaret Thatcher, di trasformare i veti che la premier inglese poneva in un opt-out. Cioè il fatto che dicesse: potete farlo, ma io non ci sto. Cosa per nulla scontata. Accadde così per l’Euro, la moneta unica: riuscì a convincerla che era una cosa buona anche per loro, che erano convinti anti-integrazionisti. E accadde per l’Erasmus, consentendo a Thatcher un opt-out in materia fiscale. Cioè uno scambio: tu incassi su questioni fiscali che ti interessano, ma non metti il veto sull’Erasmus. Esatto. E qui vedi l’abilità del negoziatore. Perché la premier britannica non si rese conto che, in cambio di questioni economiche, concedeva il vero sogno che avrebbe fatto nascere una generazione di giovani europei. Gli anni della sua commissione sono quelli del grande balzo in avanti dell’Europa. Sì, l’impronta si capisce appena Delors diventa presidente della Commissione europea e apre la stagione del dialogo sociale europeo. Su questa base lancia quel progetto che ha come data fatidica il 31 dicembre 1992 che mira ad eliminare gli ostacoli alla libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone. Le famose quattro libertà. Promessa che diventa in parte realtà a partire dal ’93. In parte. Qui c’è anche il suo lavoro odierno e più in generale ci sono le difficoltà e le sfide dell’Europa di oggi. Sì, il rapporto che su mandato del Consiglio europeo ho avuto l’incarico di redigere per dire che cosa bisogna fare per completare queste quattro libertà. Il fatto che gli Stati europei abbiano bloccato il completamento è stato il problema maggiore per la crescita e la competitività europea. Delors non si colloca storicamente in modo corretto senza nominare il 1989. Possiamo dire che coglie, meglio di altri, la portata storica di quell'anno, mentre Thatcher, Andreotti e anche Mitterrand vedono come una minaccia la riunificazione tedesca? Capì che i grandi processi storici non si poteva non accompagnarli. Ed ebbe la grande intuizione che, proprio per accompagnare quel processo, occorreva che la Germania desse agli altri paesi europei la sua forza monetaria, in cambio del via libera alla riunificazione. Alla base c’era una convinzione che metterò alla base del mio rapporto: eravamo tutti grandi paesi in un mondo di piccoli; adesso, in questi anni 20-30 del nuovo secolo, il mondo è diventato gigantesco e noi grandi paesi europei siamo diventati tutti di taglia medio-piccola. Quindi, per avere ora la stessa influenza che avevamo da soli allora, bisogna stare tutti insieme. Quanto contava che a fare questo ragionamento fosse proprio un francese, da sempre storicamente orgoglioso della propria tradizione e autonomia nazionale? Molto. Fatto da un francese è più incisivo, più forte. Accettare completamente questa dimensione per noi italiani è più agevole: non siamo mai stati nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come membri permanenti con diritto di veto, non abbiamo l’arma nucleare… E quanto pesa l’essere socialista e cattolico in questa sua idea di ricomposizione europea? È fondamentale perché quelle culture politiche sono il cuore dell’Europa: mercato unico e solidarietà, libertà e solidarietà. Se non si riparte da questo connubio, che alla fine si traduce in una economia sociale di mercato, non ce la faremo mai. E qui veniamo all’oggi. Il vero problema è che oggi il sogno non c’è. Il sogno europeo di Delors è stato un sogno di liberazione: unire alla caduta del muro di Berlino l’idea di abbattimento delle frontiere interne, liberando energie. Oggi purtroppo - e lo si vede nei dibattiti nazionali - in qualunque paese europeo davanti alle criticità le risposte sono di richiudere le frontiere interne, come forma di “protezione”. Però, scusi, non pensa che dentro quell’idea di Maastricht ci sia parte del problema di oggi? Delors stesso ebbe degli accenti critici su Maastricht. Si arrese all’ultimo, perché nella sua idea i parametri dovevano essere tre: deficit, debito, disoccupazione. Siccome mancava questo, espresse delle critiche. Lui voleva dentro quel pilastro sociale che alla fine è rimasto solo abbozzato e solo oggi è stato in parte ripreso e rilanciato. Nelle conversazioni che abbiamo avuto in questi anni il suo rammarico è stato questo e la sua soddisfazione era, negli ultimi anni, per quel progetto portato a termine da Schmit e Gentiloni, diventato il piano Sure sulla disoccupazione. Questi fondamenti sono ancora sostenibili in questa fase di ritorno massiccio del peso politico nell’economia, vedi Joe Biden, di capitalismo di Stato, intervento pubblico, sicurezza nazionale, golden power, uso delle sanzioni. Maastricht è roba da antiquariato. Non siamo forse a un cambio di paradigma? Siamo in una fase di cambio di paradigma che ci spinge proprio nella direzione che Delors ci aveva indicato. Quando l’ho visto, appena avuto l’incarico, mi ha detto: ricordati che quando ho lanciato il mercato unico è stato un successo perché ho contemporaneamente avviato i fondi strutturali per la politica di coesione. E ricordati che non ci può essere mercato unico senza coesione. Questo è il vero tema di oggi: come far sì che ci possa essere il calore sociale accanto alla freddezza dell’economia. I protagonisti di Maastricht sono tutti ammaccati: socialisti francesi in estinzione, centrosinistra italiano malmesso, Spd in crisi (superata dall'ultradestra). Se vogliamo essere indulgenti, possiamo dire che l’intuizione era giusta, la realizzazione ha dato benzina alla rivolta sovranista? Io continuo a vedere il bicchiere mezzo pieno. Se non ci fossero state quelle realizzazioni saremmo in condizioni peggiori, anche su un tema su cui abbiamo la leadership nel mondo, che riguarda la questione ambientale. Nasce anch’essa con Delors che decide di partecipare come Commissione europea alla grande conferenza di Rio. Quindi non penso che il bilancio sia fallimentare: risposta al Covid, vaccini comuni, sostegno all'Ucraina aggredita, sono la dimostrazione di una straordinaria capacità di reazione. Allora gliela metto così: quanto l’Europa di oggi corrisponde all’idea di Delors? La vera differenza è che i progetti e le grandi realizzazione di Delors (mercato unico, Erasmus, politica di coesione) sono stati realizzati con una visione di lungo periodo, oggi viceversa quello che accade sono reazioni immediate a crisi dirompenti. Una cosa è reagire a una crisi, altra è la visione. C’è bisogno di un’Europa che non sia solo una reazione alle crisi. Chi è in grado di realizzare pensieri lunghi? Appunto, c’è un difetto di leadership e una grande frammentazione. Delors aveva un’Europa più semplice, con due sostegni come Kohl e Mitterrand e due alleati scaltri ed efficaci come Andreotti e Gonzales. Mario Monti, in un’intervista a Federico Fubini sul Corriere della Sera, definisce così l’Europa che lascia Delors: “Ricca di progetti, debole nelle realizzazioni, carica di speranze”. Condivide? Giudizio storicamente giusto. Ma aggiungo: le mancate realizzazioni sono frutto del veto degli Stati. Mi riferisco ai tre grandi settori di telecomunicazioni, energia, mercati finanziari. Furono gli Stati che allora dissero “no” a Delors. E non a caso sono i tre settori in cui siamo meno competitivi con gli Stati Uniti. Lei dice che l’Europa funziona come risposta alle crisi, ed effettivamente sul Covid ha risposto. Sicuro che vale anche sull’Ucraina dove fa il minimo necessario, su Gaza dove è del tutto ininfluente, sulla riforma del Patto di stabilità in modo poco espansivo? Divido le questioni: la politica estera è un terreno minato perché l’Europa è divisa in termini di regole. Gli Stati si sono tenuti non solo la golden share, ma proprio la share. Ogni paese si vuole tenere le mani libere sul Medio Oriente; sull’Ucraina considero un mezzo miracolo quel che è successo. Su tutto l’Europa può fare passi avanti meno che su tasse e politica estera. Accadde anche con Bosnia e Iraq, e questo è uno dei grandi problemi europei. Il nuovo patto vediamolo prima in azione, non dico che è un disastro a prescindere. In queste Europee la sfida è più articolata del solito. Perché non hai una contrapposizione classica tra “sì euro” e “no euro”. Non pensa che, nel momento in cui Giorgia Meloni comunque accetta il vincolo esterno nella formula dell’Europa delle Nazioni, le vada contrapposta un’idea di cambiamento dell’Europa e non la solita minestra dell’europeismo acritico? Devi rilanciare col completare quello che fino a oggi non c’è stato, perché è stata una costruzione storta. Insisto: più attenzione al calore sociale per recuperare il consenso della parte più euroscettica e più capacità di parlare su tempi lunghi e progetti lunghi. A me pare ci sia la consapevolezza che solo insieme ce la possiamo fare nella sfida globale con le grandi potenze cinese e americana. E che nessuno ce la fa da solo. Questa è l’eredità di Delors.

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