l’intervento

Enrico Letta: una Confederazione europea e il percorso per l’adesione di Kiev

di Enrico Letta

Enrico Letta: una Confederazione europea e il percorso per l'adesione di Kiev Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky che consegna il questionario UE compilato a Matti Maasikas, capo della delegazione dell’Unione europea in Ucraina, a Kiev

L’Ucraina si è candidata a entrare nell’Ue. Da Bruxelles e dalle altre capitali europee questa aspirazione è stata incoraggiata senza indugi. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, domenica su questo giornale, ha richiamato il valore dell’autodeterminazione del popolo ucraino. Un popolo che ha scelto col referendum «estremo» — quello tra la vita e la morte — di non soccombere alla dominazione russa e di voler far parte dell’Europa unita.

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Sono d’accordo con le sue parole. L’obiettivo primario è la pace, con veri negoziati che facciano cessare le ostilità. È giusto aprire le porte all’Ucraina e ad altri Paesi dell’Est che hanno la stessa aspirazione di libertà e democrazia. È sbagliato sminuire la complessità di questo processo. L’ingresso è tutt’altro che semplice. Molti i ritardi da colmare per adeguarsi agli standard richiesti, imponente l’impatto potenziale di un nuovo allargamento sull’assetto stesso dell’Ue. Dopo l’89 si procedette senza visione. All’inizio grandi promesse; poi anni di docce fredde; infine, l’accelerazione. Il risultato? Il risentimento negli uni, i nuovi arrivati, e la diffidenza degli altri, i vecchi membri. Le vicende successive di Ungheria, Polonia o del gruppo di Visegrad lo testimoniano.

Il mio appello è: non commettiamo gli stessi sbagli. Creiamo subito una Confederazione europea, composta dai 27 Stati membri, dall’Ucraina e da Georgia e Moldavia, e poi da Nord Macedonia, Serbia, Montenegro, Albania, Bosnia e Kosovo. Si otterrebbe un duplice risultato. L’Ucraina e gli altri Paesi in attesa potrebbero partecipare alla vita pubblica europea e avere soggettività in uno spazio politico e strategico comune. In parallelo proseguirebbe, senza forzature e con la tempistica opportuna, il percorso ordinato di adesione alla Ue.
La declinazione più concreta di questo modello sarebbero le riunioni dei Consigli europei che dovrebbero essere immediatamente seguite, con grande forza simbolica, nello stesso luogo, dal summit dei leader della Confederazione.

In passato si scelse altrimenti e tutto si complicò. Anche allora i Paesi dell’Europa centro-orientale manifestarono da subito la volontà di essere parte della Comunità che stava trasformandosi in Unione. La risposta fu pronta e affermativa, come lo è quella che diamo oggi all’Ucraina. Era la forza della Storia che portava nella direzione dell’apertura.
La carica ideale fece, però, perdere di vista le ricadute pratiche. Si procedette tra grandi impegni retorici e un piano di percorsi singoli e relazioni bilaterali, senza che fosse ben ponderata ogni possibile complicazione.
Non andò come ci si aspettava ed emerse la complessità di una operazione che in un colpo solo avrebbe raddoppiato il numero dei Paesi membri e trasformato il modo di essere dell’Unione. In questo percorso tortuoso non si riuscì, ad esempio, a riformare il processo decisionale e ad abolire il diritto di veto in tanti, troppi ambiti.

Ci vollero lustri per completare l’allargamento. Le opinioni pubbliche divennero ostili. E fu solo grazie alla determinazione della Commissione Prodi che il processo giunse a compimento. La scelta era opportuna: le vicende di queste settimane — e ancora prima la storia di nazioni da sempre esposte a tentativi di egemonia e dominazione — conferma quanto sia stato importante comunque riuscire nell’allargamento. Ma si sarebbe dovuto evitare di concentrare tutto solo sull’adesione più rapida possibile alla Ue.
Si sarebbe dovuto fin dall’inizio costruire un’architettura più ambiziosa. Il tutto al fine di far coesistere due esigenze complementari: la condivisione immediata della politica e l’adeguamento progressivo delle politiche.

La Confederazione europea sarebbe il luogo del dialogo politico tra i 36 membri. Si concorderebbero scelte comuni. Si affinerebbe la capacità di definire insieme strategie globali, a partire dalla difesa della pace, dalla sicurezza, dalla promozione di un modello di sviluppo giusto e sostenibile e dalla lotta al cambiamento climatico. E si caricherebbe di forza, anche simbolica, l’unità del continente.
Le convulsioni di questi giorni drammatici non devono mai farci perdere di vista il quadro generale o smarrire la lucidità nel prevedere le conseguenze sul futuro delle scelte che si assumono oggi.
Il 24 febbraio — il giorno in cui Putin con l’invasione ha tentato di riportarci tutti nel peggiore Novecento — è una cesura che segna un passaggio d’epoca.
L’Europa di domani sarà diversa, comunque diversa. Per questo è vitale guidare il cambiamento e non farsi guidare dagli eventi, a partire dalla determinazione a fare dell’Unione Europea sempre di più un continente di pace che lotta per la pace.
L’Europa è la nostra casa: è talmente attrattiva che milioni e milioni di cittadini dall’esterno vogliono farvi parte. È talmente preziosa che riformarla, rendendola più solida, è un dovere storico, forse il più impegnativo mai affrontato dalle nostre generazioni.

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