Jean-Claude Juncker dice che l’Europa attraversa una crisi esistenziale. Lei, che ne pensa? Attraverso gli occhiali rossi Pascal Lamy concede uno sguardo riflessivo: «Fortunatamente non devo fare discorsi all’Europarlamento - sorride -, dunque non ho bisogno di drammatizzare le cose». Eppure, aggiunge il francese che ha passato dieci anni al fianco di Jacques Delors quando era presidente della Commissione Ue, «è vero che in questa simultaneità di crisi differenti c’è qualcosa che erode il senso dell’Europa e del suo progetto». Una tempesta complessa, argomenta. Da cui si esce con le soluzioni ovvie - investimenti e mercato -, ma anche elaborando una visione europea vera «che sappia diffondere il senso di appartenenza» all’Unione fra i cittadini. Sennò si rischia di fare ben poca strada.

In una pausa dei lavori con cui l’Istituto Delors ha celebrato i vent’anni di attività, l’economista che ha guidato l’Organizzazione mondiale del commercio, ragiona sull’Europa e le sue magagne. Sono giorni cupi e c’è chi legge nell’incertezza una corrente simile a quella dell’estate 1914, quando stava per succedere qualcosa di terribile e nessuno sapeva cosa fare.

«Non ho mai creduto che la storia possa offrire due volte lo stesso piatto», frena Lamy. Tuttavia, aggiunge felpato, «le turbolenze che viviamo sono dovute alle grandissima velocità della trasformazione del mondo occidentale. Il motore del cambiamento è l’evoluzione delle infrastrutture tecniche e informatiche. Unito al ritmo rapidissimo con cui si è affermata la globalizzazione, può ricordare le ragioni che hanno portato alla caduta dell’impero austro-ungarico. Ma non andrei più lontano, non sino a spingermi a parlare di guerre».

Non vede nemmeno un fermento simile a quello seguito alla Grande Guerra?

«In questa crisi ci sono umori imparentati con quelli che portarono all’affermarsi di fascismo e nazismo. Qualcosa c’è, anche se la situazione è differente».

Meglio cambiare approccio?

«Il sogno dei padri fondatori, cioè che l’integrazione politica sarebbe scaturita automaticamente dall’integrazione economica, richiedeva un’alchimia formidabile. Bisogna riconoscere che non sta funzionando».

E allora?

«Manca un catalizzatore simbolico e culturale. Delors diceva che “non ci si innamora di un grande mercato”, mentre la formula (apocrifa) attribuita a Jean Monnet recita “se dovessi ricominciare, lo farei dalla cultura”. Sono considerazioni giuste. Mancano una cultura, un movimento, uno spirito comune».

Come si supera l’impasse dell’economia piatta?

«Conosciamo i cantieri su cui bisogna lavorare. La crescita in Europa è più bassa rispetto all’America o alla Cina perché non siamo abbastanza giovani, investiamo poco, non innoviamo a sufficienza e non siamo uniti. Abbiamo un potenziale di sviluppo da un punto e mezzo. Per alzarlo a due e mezzo oppure oltre, cioè portarlo alla soglia minima per permetterci il modello sociale europeo, occorrono investimenti, gestione demografica, ricerca e approccio corale».

Un esempio?

«Guardiamo ai servizi. Abbiamo grandi potenzialità, ma non c’è un mercato unico. In America c’è. Fine della storia».

A voler essere più pratici?

«Bisogna riparare l’Unione monetaria, dall’inizio sapevamo che c’era qualcosa che mancava. Poi intervenire sulla sicurezza e la difesa comune, rafforzando le frontiere esterne. Infine fare qualcosa per i giovani. E’ facile dirlo come ha fatto Juncker al Parlamento europeo. Intanto, però, l’Erasmus che l’istituto Delors ha proposto due anni fa per i tirocinanti non si muove. E’ sul tavolo e tutti dicono che è una buona idea. Poi però salta fuori qualcuno che dice che costa troppo e altri che rimarcano l’esistenza di piccoli programmi analoghi. Senza contare chi teme che i giovani della periferia andranno al centro, impareranno un mestiere e resteranno lì, “rubando” il posto ai locali. Cosi, non si può pretendere che l’Europa funzioni davvero».

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